venerdì 28 giugno 2013

Il ritratto. Con Emilio Colombo se ne va l’interprete del Sud immobile e stagnante

La morte di Emilio Colombo non è semplicemente un accadimento naturale. La morte di un uomo che ha segnato così a lungo e profondamente la vita della Lucania è soprattutto, per noi che del dato umano siamo poco o nulla partecipi anche per ragioni anagrafiche, un fatto politico.
Ma una critica del settantennato del personaggio non può soffermarsi certo sulla maldicenza popolare, prodotto e contrappunto, forse persino naturale, di quella stessa collettiva adorazione che in tantissimi gli hanno tributato per decenni: Colombo delle promesse industriali, Colombo del mancato sviluppo, e così via fino al Colombo della repressione dei moti di Reggio, degli opachi retroscena giudiziari, e giù ancora fino al fondo del Colombo presunto vorace omosessuale, impenitente cocainomane, padre naturale di decine di bambini per grazia di compiacenti contadine, padre naturale perfino (anche questo si è detto…) del mattoide pluriomicida Danilo Restivo e chissà cos’altro. Questioni avvolte nella nebbia caratteristica del mito, storie, se si esclude la triste vicenda della cocaina, che puzzano di fantasia lontano un miglio.
Emilio Colombo, come restituito dai ricordi recenti, è una figura di grande spessore, autore e responsabile di una strategia politica le cui conseguenze tutti vediamo realizzate. Basta leggere i giornali “del giorno dopo”, per rendersi conto di quanto la classe dirigente lucana debba al suo padre fondatore: ogni firma di riguardo (quelle poche) si dà tutta al ricordo, al panegirico, alla lode sperticata. Hanno ragione di sentirsene orfani.
Emilio Colombo è stato la Basilicata fino a oggi. L’idea stessa che lo sviluppo non debba accompagnarsi all’emancipazione culturale, il famoso “modello Basilicata”, è tutta farina del suo sacco. Per decenni Colombo ha coltivato, volontariamente o meno forse nemmeno è importante, il Lucano medio come un modello di ossequiosa assuefazione al potere, allevando in parallelo una classe dirigente impermeabile a ogni confronto democratico, investita della sola funzione di comando delle masse: contributi a pioggia e ferreo controllo del territorio, paternalistica comprensione per tutti ma la parola a nessuno, fino a dividere i Lucani in due fazioni: coloro che ricevono i benefici della raccomandazione, dei contributi pubblici, della lottizzazione urbanistica, della tolleranza amministrativa, e quelli che emigrano. Se per rimpinguare le file dei primi c’è sempre una possibilità, e si sprecano i posti pubblici e privati gonfiati alla bisogna, per i secondi nessuno, neanche nel 2013, riesce a trovare ancora un posto.
Come in una grande competizione truccata, ancora oggi in Basilicata ogni iniziativa ed energia si schianta contro il muro delle regole non scritte: non affermare diritto ciò che può essere accordato come favore, non approcciare in maniera frontale una questione che può seguire una via obliqua. La Basilicata non ha mai avuto un piano industriale, pure più volte promesso, non ha mai avuto un’università in grado di innescare volani di sviluppo, pure più volte auspicati. Non l’agricoltura, che langue in distese sconfinate dove ancora oggi l’occhio non scorge la sagoma di un mulino o di un silos, può dare lavoro ai suoi figli; non il turismo, sbandierato in ogni occasione e perso nel labirinto dei divieti, della diffusa corruzione e delle grandi occasioni perse.
La Basilicata ha avuto per settant’anni solo soldi, soldi, una montagna di soldi elargiti a piene mani fino a deprimere il già debole spirito di concorrenza, il già depresso anelito all’emancipazione, all’affermazione del diritto, al progresso. Una montagna di soldi che si vantano, forse troppo, aver lasciato qualcosa di buono, ma che, soprattutto, hanno ucciso ogni moralità, se con questa bella parola indichiamo nel cittadino la volontà di lavorare, di migliorare la propria condizione e di definire un perimetro di libertà libero dai condizionamenti dei più forti. Niente più di questo abbiamo ricevuto noi Lucani onesti vivente Colombo: una montagna immane di denaro regalato a chiunque perché, proviamo a immaginare, non ponesse in pericolo, come in altre parti d’Italia, il predominio della politica sul cittadino.
Certo, forse va riconosciuta a Colombo la sincerità delle intenzioni, se consideriamo che fin dagli anni ’50, in Italia, faceva paura, a una certa élite politica, l’industria e l’autonomia dell’impresa, covo di germi socialisti e fascisti. Ma di questa “ragion di stato”, di questa epocale (fatale?) opzione storica che ha collocato la Basilicata nella pace sociale a costo della più brutta stagnazione economica, mentre in Lombardia fioriva il conflitto economico della concorrenza e il progresso del dibattito democratico, noi, che veniamo dopo Colombo e delle sue scelte dobbiamo subire gli effetti anche nostro malgrado, non possiamo che considerare responsabile l’uomo, al di là del dato umano e della sua dipartita.
Mentre nella vicina Puglia si macinano migliaia di tonnellate del nostro grano, incassando un valore aggiunto che nessuno in Basilicata, ancora nel 2013, sa come realizzare; mentre gli immobiliaristi pugliesi e campani, con i prestiti della crisi, riescono a realizzare oggi le strutture che i Lucani non seppero edificare con i miliardi della Cassa del Mezzogiorno; mentre le migliori menti e le migliori braccia si allontanano per trovare altrove la libertà (spesso, incredibilmente agevole) di fare impresa, politica, cultura, fortuna, ecco che centinaia di padri insegnano ancora ai figli a cercare una mano da baciare devoti, l’aiuto compassionevole del satrapo per la grazia di un posto di lavoro finto, la manna di un contributo pubblico per un rischio d’impresa che è un peccato voler affrontare da soli.
Ecco, semplicemente, di quella storica scelta, mentre vediamo l’ennesimo emigrante, noi dobbiamo considerare responsabile Emilio Colombo. Egli aveva la caratura politica per farci diventare migliori, ha avuto l’occasione storica (anche per ragioni legate alla grande espansione economica dei suoi anni) per farci sollevare dalle nostre paure primordiali con la pratica sacra del lavoro, della crescita, del dibattito; non lo ha fatto. Ha preferito la certezza dell’analfabetismo politico, che gli è valsa un’incontrastata devozione per settant’anni, all’incognita del progresso civile e culturale, che, come si sa, macina i rappresentanti politici come un mulino i chicchi di grano.
Di questo noi Lucani emigrati, ignorati, emarginati, inascoltati, lo dobbiamo ritenere responsabile. Dispiace molto, infine, che a ricordare il guardiano di una simile stagnazione iperconservatrice sia la sinistra lucana, i figli di coloro che volevano insegnare agli analfabeti a rivendicare dinanzi al re, i nipoti di coloro che con la “critica” volevano rivoluzionare ogni dominio dell’uomo sull’uomo, quelli che (vero?) invidiano ai tedeschi la clarità delle istituzioni.
Bisogna ancora molto dibattere sui problemi del cosiddetto Mezzogiorno, insieme destra e sinistra, per arrivarne finalmente a capo. La morte di Emilio Colombo è, spiace dirlo, un passaggio fondamentale per liberare le forze economiche e politiche che quel dibattito devono iniziare.
di Pio Belmonte

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